LA BIOPLASTICA E LA PLASTICA BIODEGRADABILE NON SONO LA STESSA COSA

Dopo le molte polemiche sulla questione delle bioshopper a pagamento nei supermercati, in questo articolo si vuole parlare di una differenza importante che spesso non è chiara ai consumatori: la differenza tra bioplastiche e plastiche biodegradabili. I due termini vengono spesso utilizzati come sinonimi, ma non lo sono.

In base alle normative, si definisce plastica biodegradabile un materiale che può essere degradato da batteri o funghi quando si trova in un ambiente acquatico, gassoso o costituito da biomassa – di solito, per la degradazione servono un determinato lasso di tempo, particolari condizioni di temperatura e la presenza di ossigeno o microorganismi capaci di digerirla. Anche i polimeri ottenuti da combustibili fossili possono essere biodegradabili (come nel caso del polibutilene succinato (PBS)), anche se è vero che i più diffusi (polipropilene (PP), polietilene (PE), cloruro di polivinile (PVC), poletilentereftalato (PET) e polistirene (PS)) non lo sono. La bioplastica ha, sicuramente, un impatto ambientale inferiore rispetto alla plastica tradizionale, ma anche quando si degrada non è esente da effetti negativi, come l’eutrofizzazione e l’acidificazione dei terreni. Quando, poi, è sversata nei mari, prima di riuscire a degradarsi esplica un notevole impatto negativo sui pesci e sugli uccelli marini.

Si chiama, invece, bioplastica un prodotto ricavato da biomassa (ovvero un materiale di origine biologica, come l’amido di mais, di grano, di tapioca, di patate) senza la presenza di alcun componente di origine fossile (derivato da carbone o petrolio). Alcuni tipi di bioplastica sono biodegradabili (ad esempio, l’acido polilattico (PLA)), mentre altri non lo sono (ad esempio, il bio-PET impiegato per le bottiglie di acqua e altre bevande).

Oltre a questi due concetti, per completare il discorso occorre parlare di un aggettivo importante: compostabile, cioè un materiale non soltanto “biodegradabile”, ma anche disintegrabile nel giro di tre mesi.

Quali sono, quindi, i sacchetti e/o le shopper in cui dovrebbero essere riposte frutta e verdura acquistata nei supermercati e che potranno poi essere utilizzati come contenitori per i rifiuti organici, da conferire nella frazione umida? Non bisogna lasciarsi ingannare dalla scritta “degradabile” simile a quella che si può osservare nella foto. Occorre verificare, infatti, la presenza della sigla EN 13432, corrispondente a uno standard normativo che ne certifica la biodegradabilità unita alla compostabilità.

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